Le ragioni dell’ obbligo : tra diritto e morale

La tematica dell’esistenza autonoma del “dovere obiettivo” di obbedire al diritto, rappresenta un problema di grande importanza nell’ambito della filosofia politica e della filosofia del diritto. La riproposizione del rapporto concettualmente necessario, fra diritto e morale, viene oggi considerata come una conseguenza dello sviluppo delle idee di uno dei più importanti positivisti di questo secolo, H.Hart, al quale, con la sua ”practice theory of norms”, suole ricondursi la genesi del “modello dell’autonomia” dell’obbligo giuridico in chiave convenzionalista(M. Barberis, Diritto e morale: la discussione odierna, 2011,p.55-93). Aldo Schiavello, Professore di Filosofia del diritto all’Università degli Studi di Palermo, nonché condirettore di Diritto & Questioni Pubbliche, nel suo libro “Perché obbedire al diritto? La risposta convenzionalista ed i suoi limiti”, Ed. ETS, Pisa 2010, ha ribadito la centralità del dibattito giuspositivista sulla normatività del diritto ed in particolare, dopo una sintetica presentazione della posizione di Hart nel centrale Cap. III(I), ha confutato i punti fondamentali della giustificazione dell’obbligo politico in chiave convenzionalista, permettendo così la conseguente emersione di alcuni punti di incontro tra diritto e morale (M. Narvaez e S. Pozzolo, Il concetto di accettazione non è una minaccia per il positivismo hartiano)(II) ai quali si aggiungono alcuni interessanti tentativi di dimostrazione di tale connessione nel dibattito filosofico attuale(III).

I. Tesi  della separazione nel pensiero Hartiano

Hart sostiene l’idea positivista che esistano genuine ragioni giuridiche per l’azione, che in determinate circostanze non vanno bilanciate con ragioni di tipo diverso, siano esse morali o prudenziali. A sostegno di tale affermazione, propone la “practice theory of norms”, una spiegazione della normatività del diritto che riposa sull’esistenza di pratiche sociali che impongono di fare ciò che prescrive il diritto. Tuttavia, poiché questa viene considerata una condizione necessaria ma non sufficiente per ricostruire un determinato comportamento in termini di obbligo, egli completa la sua “teoria generale dell’obbligo” individuando tre ulteriori condizioni che devono necessariamente essere presenti. In tal maniera Hart riesce a risolvere il problema del fondamento della validità delle norme giuridiche stabilendo che le regole sociali vengano utilizzate come criterio supremo di riconoscimento delle norme giuridiche rispetto alle regole morali e di etichetta (A. Schiavello, An immense task: Hart sull’obbligo di obbedire al diritto, Università di Milano,20 gennaio 2012,p.36), riconducendole così ad unità sistemica. Ma l’aspetto più interessante e controverso della teoria hartiana ruota proprio attorno al concetto di regola sociale, la quale essendo una regola realmente esistente, fonda la sua legittimità sulla sua efficacia, ossia per il fatto di essere effettivamente seguita da un gruppo di persone, fondamentalmente funzionari, che accetta tale regola dal punto di vista interno ( Ibidem,p.5). Schiavello fa notare come sullo sfondo di questa impostazione si scorga la tesi che “giustificare un’azione significhi usare una norma e che usare una norma significa accettarla come modello di condotta”(A. Schiavello, Ronald Dworkin e il positivismo giuridico: un bilancio provvisorio, Rivista di filosofia del diritto,1/2014, p.19-40).A tal proposito, egli mette in evidenza la concezione hartiana di “accettazione” di una norma, che consiste in un atto mentale o interno e perciò irrilevante ai fini della giustificazione di un determinato comportamento. Dunque una norma giuridica, potrebbe essere accettata per ragioni prudenziali o morali, così come una norma morale può essere accettata per ragioni morali, per ragioni prudenziali o per ragioni di semplice conformismo( A.Schiavello, Perché obbedire al diritto?,2010,p.103-105). Nel Poscritto del 1994, Hart, in risposta alle critiche di Dworkin, afferma che la regola di riconoscimento è una regola convenzionale, nel senso che la sua obbligatorietà per ciascun giudice dipende necessariamente anche dal fatto che essa sia considerata obbligatoria dalla classe giudiziaria nel suo complesso. In pratica, Hart, mosso dall’esigenza di garantire l’autonomia del diritto dalla morale, finisce per intendere l’accettazione del diritto in senso debole e vago. Schiavello sottolinea come l’aspetto più “spiccatamente convenzionalista” della teoria di Hart sia proprio la rilevanza data all’interazione dei comportamenti di coloro che sono soggetti alla regola sociale, che Celano chiama “condizione di dipendenza”, per cui una regola sociale viene considerata modello di condotta per il fatto che gli altri membri del gruppo la considerano tale(A.Schiavello, Perché obbedire al diritto?,2010,p.102). Il risultato finale di tale “svolta convenzionalista” si manifesta nella definizione dell’obbligo morale in chiave convenzionalista articolata fondamentalmente in due tesi : la funzione principale del diritto che consiste nel risolvere problemi di coordinazione e la capacità di obbedienza alle prescrizioni giuridiche che è necessariamente collegata all’esistenza di un obbligo “tutto considerato”. In altre parole, l’esistenza di un obbligo giuridico genuino implica che un comportamento conforme a quanto prescritto da una norma giuridica venga ritenuto giustificato.

II. Individuazione degli elementi d’avvicinamento tra obbligo giuridico e morale a partire dalle critiche ai concetti base del modello convenzionalista

I numerosi punti deboli incontrati durante il percorso di ricostruzione della teoria convenzionalista di obbligo giuridico, hanno permesso a Schiavello di mettere in luce i collegamenti presenti tra il concetto di obbligo giuridico e morale, ed affermare il sostanziale fallimento del modello dell’autonomia. Partendo dall’iniziale teoria delle regole sociali, ricorda la fondamentale critica di Dworkin per il quale l’errore maggiore di Hart sarebbe stato proprio quello di ritenere che l’esistenza di un obbligo presupponesse necessariamente l’esistenza di una regola sociale(Ibidem 103-107). Per lui, non è possibile distinguere gli obblighi giuridici da quelli morali in senso proprio, in quanto la fonte degli obblighi non sono le regole sociali, ma le regole della moralità critica degli individui (Ibidem p.92). Rifacendosi poi alla critica espressa da MacCormick, Schiavello afferma che un problema sia proprio la caratterizzazione in senso troppo debole dell’accettazione del diritto e del punto di vista interno. “L’esistenza di alcune norme giuridiche anziché di altre, dipende dal fatto che almeno alcuni tra i membri della comunità preferiscono lo schema di comportamento individuato da tali norme rispetto a schemi alternativi di comportamento. Sostenere che l’esistenza di una regola sociale implichi che vi sia qualcuno che ritenga il comportamento prescritto dalla regola preferibile rispetto ai comportamenti alternativi, non significa, ovviamente, che si neghi la possibilità che alcuni seguano tale regola per pigrizia o ipocrisia, ovvero che altri si ribellino ad essa”( Aldo Schiavello, Scienza Giuridica, Metodo, Giudizi Di Valore, Quad. 1/2007 p.15). Egli sottolinea poi che queste situazioni, possano appunto essere comprese solo se si presuppone l’esistenza di un gruppo rilevante che accetta le norme da un punto di vista morale. Schiavello non manca di sostenere l’importanza delle implicazioni che tale concessione ha in relazione all’obbligo giuridico, in quanto chi ritiene di avere l’obbligo di conformare il proprio comportamento a quanto richiesto dal diritto, deve essere pronto ad avanzare ragioni morali, a giustificazione di tale obbligo, e ciò implica la rinuncia alla possibilità di distinguere l’obbligo giuridico dall’obbligo morale(A.Schiavello, Perché obbedire al diritto?,2010, p.160-163). Con riguardo alle contro-critiche di Gans e Postema, la critica decisiva consiste nel negare che la funzione principale del diritto sia quella di risolvere problemi di coordinazione intesi in senso stretto e ciò in nome di Hart stesso, secondo cui “una delle condizioni necessarie affinché un determinato comportamento possa essere ricostruito in termini di obbligo è che vi sia una “permanente possibilità di conflitto” tra l’obbligo da un lato e l’interesse personale dall’altro”, mentre le regolazioni risultanti dalla soluzione di un problema di coordinazione sono pur sempre nell’interesse di chi è chiamato a corrispondervi(V.Marzocchi, Politica & Società,3/2012,469-478). Tale prospettiva viene ulteriormente argomentata riguardo alla tesi di Postema, il quale, ammettendo che il diritto è una ragione per l’azione dei cittadini nella misura in cui o risolve problemi di coordinazione o incorpora e difende principi e valori morali da loro accolti, riconosce che l’obbligo giuridico non è indipendente dall’obbligo morale. Anche con riguardo all’obbligo dei funzionari di rispettare le convenzioni, si deve concedere uno spazio alla morale, ammettendo che valutazioni di questa natura possano influire sia prima che si consolidi una convenzione interpretativa, e indirizzare la scelta verso una delle possibili interpretazioni di una disposizione, sia successivamente, nella misura in cui sia la stessa convenzione interpretativa a riconoscere l’esercizio di discrezionalità all’interprete (A.Schiavello, Perché obbedire al diritto?,2010, p.148-149). Schiavello quindi mostra come anche le versioni più interessanti del convenzionalismo non sostengono la tesi estrema che la regola sociale sia l’unica ragione per cui un individuo è tenuto a considerare obbligatoria una norma giuridica, ma che l’obbligo di obbedire al diritto dipende anche da valutazioni circa la giustizia e la correttezza morale delle norme che sono riconducibili, al modello della morale. Anche la concezione di obbligo giuridico difesa da Coleman non è in grado di prendere le distanze dal modello della morale in quanto contro la sua tesi per cui il diritto sia un’attività cooperativa condivisa tra i giudici, Schiavello, osserva come “ non sia l’esistenza di una convenzione a rendere obbligatori certi comportamenti ma un ben riconoscibile principio morale che impone di tutelare l’affidamento altrui e proteggere le aspettative giustificate dal prossimo”(A.Schiavello, Perché obbedire al diritto?,2010, p.173). In sintesi ci troviamo di fronte al c.d. giuspositivismo inclusivo, che è in tal modo giunto alla tesi della separabilità contingente, consentendo che il diritto incorpori valori morali quali sacralità della vita, dignità umana, giustizia, come fanno tipicamente le costituzioni contemporanee che condizionano la validità della norma giuridica.

III. La rilevanza della morale nel dibattito contemporaneo: la proposta neocostituzionalista

La tesi positivista della separazione fra diritto e morale nasce in un contesto di laicizzazione del diritto e dello Stato, in cui si intendeva liberare il diritto, dall’ombra della tradizione e della religione(G.Pino, Il positivismo giuridico di fronte allo Stato costituzionale,p.218-219). Nel corso degli anni ha subito varie reinterpretazioni collegate all’ evoluzione degli stessi ordinamenti statali. Attualmente, in seguito all’avvento dello stato costituzionale, esiste una famiglia di teorie del diritto, conosciuta come non positivismo o neocostituzionalismo, che si oppone alle teorie sostenute dai giuspositivisti, sostenendo la tesi della necessaria connessione definitoria, giustificativa e interpretativa , per cui il diritto non può che essere definito in termini morali, come insieme di norme giuste o non intollerabilmente ingiuste. Tra i sostenitori, troviamo i principali protagonisti delle critiche al giuspositivismo convenzionale, tra cui Dworkin, il quale afferma la necessità di una “lettura morale” della Costituzione, in quanto il diritto si costituisce sia di regole che di principi, i quali, soprattutto quelli costituzionali, sono, sia standard giuridici che morali. Ciò sarebbe per altro dimostrato dal fatto che la costituzione, mediante le clausole costituzionali di principio, rinvia a valori e norme morali, che è compito del giudice, in sede di risoluzione di casi difficili, specificare e bilanciare. Alexy, sostiene poi che nello stesso concetto di diritto sia insita una pretesa di correttezza o giustizia che esso tende a soddisfare. Perciò, in base a tale impostazione si può giungere alla conclusione che una legge o un ordinamento moralmente ingiusto, nella misura in cui tradisce una pretesa di correttezza morale, non sia ben riuscito in quanto diritto( G. Pino, Introduzione critica al pensiero giuridico e al(..)2013,p.84-86). Sulla scia di tale concetto, ponendoci direttamente dal punto di vista dei cittadini, le ragioni morali acquisiscono una valenza particolare, in relazione al fenomeno della “disobbedienza civile”. Si tratta di casi in cui gli individui oppongono un rifiuto a rispettare norme ritenute ingiuste sulla base di una interpretazione dei principi costituzionali, senza che questo tuttavia comporti un disconoscimento della legittimità dell’autorità statale nel suo complesso (J. Rawls, Una teoria della giustizia,p.302-306). In tale circostanza le ragioni morali ponendosi alla base della disobbedienza, fanno appello a valori che sono interni all’ordinamento giuridico. Per Schiavello, l’aspetto peculiare e apparentemente paradossale è che gli atti di violazione del diritto in cui essa si sostanzia, vengono compiuti in nome di una sincera fedeltà al diritto quando si ritiene, in coscienza, che l’unico modo per manifestare il proprio riconoscimento della legittimità della autorità consista nella violazione di qualche norma di quell’ordinamento. Egli afferma che “se si riprendesse l’idea che il diritto sia una pratica sociale, caratterizzata principalmente da esercizi di interpretazione di disposizioni indeterminate alla luce dei principi e dei valori morali incorporati nel diritto in particolare, nella sua Costituzione,  allora l’obbedienza non potrebbe essere intesa come mera acquiescenza passiva ma come un vero e proprio impegno personale alla costruzione dell’ordinamento giuridico migliore possibile alla luce della migliore interpretazione dei suoi principi fondamentali. E tale impegno può richiedere, nei casi più gravi e in assenza di strumenti meno radicali, di porre in essere atti di disobbedienza”(A.Schiavello, L’obbligo di obbedire al diritto,p.26-29).

Tale argomentazione si pone ad ulteriore sostegno della conclusione alla quale giunge l’autore nelle pagine finali del libro in esame, per cui, morale e diritto, pur rappresentando due elementi distinti ed autonomamente esistenti, non possono acquisire una dimensione concreta se non in un ottica di mutua strumentalità. Trovo difatti interessante e difficilmente ignorabile la tesi di Schiavello che, chiedendosi infine quale spazio abbia il diritto all’interno ambito della morale, conclude affermando che “la funzione generale del diritto sia quella di rafforzare e concretizzare le considerazioni morali di carattere generale”. Non posso non condividere l’idea per cui riconoscere tale indissolubile legame, darebbe effettiva pienezza al ruolo del diritto nelle vite di noi cittadini, e che, facilitandone la comprensione, renderebbe l’affidamento ad esso più sicuro, e quindi una sua migliore applicazione. Difatti, come affermato da Schiavello, credo anch’io che solo ponendosi in tale ottica, il singolo individuo potrebbe sentirsi di nuovo al centro delle scelte del legislatore, riappropriandosi quindi della responsabilità di fare ciò che il diritto chiede lui, in nome di obiettivi e condizioni moralmente apprezzabili e condivisibili (A.Schiavello, Perché obbedire al diritto?, p.182-184).

 

Bibliografia

A.Schiavello, An immense task: Hart sull’obbligo di obbedire al diritto, Università di Milano, 20 gennaio 2012

A.Schiavello, L’obbligo di obbedire al diritto

A.Schiavello, Perché obbedire al diritto? La risposta convenzionalista ed i suoi limiti, 2010

A.Schiavello, Ronald Dworkin e il positivismo giuridico: un bilancio provvisorio, Rivista di filosofia del diritto,1/2014

G.Pino, Filosofia del diritto, Introduzione critica al pensiero giuridico e al(..)2013

G. Pino, Il positivismo giuridico di fronte allo Stato costituzionale

J. Rawls, Una teoria della giustizia

L.Ferrajoli, Diritto e ragione

M.Barberis, Diritto e morale: la discussione odierna, 2011

M.Narvaez e S. Pozzolo, Il concetto di accettazione non è una minaccia per il positivismo hartiano

S.Pajno, Giudizi morali e pluralismo nell'interpretazione costituzionale

V.Marzocchi, Politica & Società,3/2012