Il diritto è uomo o donna?
Janet Halley, professoressa all’Università di Harward, nell’opera “Taking a break from feminism” vuole cercare di concentrarsi sui principali filoni di pensiero che hanno nel corso del tempo influenzato il “femminismo giuridico”.
Questo può essere considerato come un insieme di teorie che si pone l’obbiettivo di “smascherare” il carattere di neutralità del diritto, dimostrando come in realtà questo sia disuguale e discriminatorio, poiché impregnato di una cultura prevalentemente maschile.[1]
L’autrice ripercorrendo il cammino del femminismo giuridico americano, vuole dimostrare come all’interno delle diverse teorie femministe ci siano dei punti in comune, una ricerca come afferma lei “di basi comuni nella diversità”.
Bisogna tenere conto del rapporto che intercorre tra il femminismo giuridico e gli scenari della politica, sono entrambi necessari per poter auspicare ad una reale uguaglianza del diritto. Questo è un obbiettivo caratteristico anche del femminismo europeo e del modello francese. [2]
Janet Halley nella sua analisi del pensiero americano, mette in evidenza come all’interno della società maschi e femmine siano ben distinti, non solo in base a fattori biologici, ma per via dei diversi ruoli che ricoprono, dominante l’uomo e subordinato la donna.[3]
Una diversa lotta per l’uguaglianza
Janet Halley individua tre correnti di pensiero femminista: Il femminismo liberale, radicale, culturale.
Il primo si propone di modificare le regole esistenti, laddove utilizzate per far permanere una disuguaglianza di genere, senza tenere conto degli aspetti storici-sociologici che ne sono alla base.[4]
Questa corrente ha avuto un forte impatto nel sistema giuridico, poiché ha utilizzato il diritto come arma primaria.
Il femminismo radicale, si pone come antagonista, e ritrova in Catherine MacKinnon la sua rappresentante per eccellenza, la quale cerca di interrogarsi sulle cause della disparità di genere, individuandone l’origine nella sessualità, che pianifica la società, suddividendola in sessi, e distribuendo ruoli e poteri.
La diversità sessuale ideata dagli uomini, viene da loro utilizzata come mezzo per porre la donna in una condizione subordinata.[5]
Le femministe radicali affermano che il diritto non sia neutrale, sostenendo che lo Stato sia maschile, e ciò implica che la donna resti imprigionata nella propria soggettività e nel cliché della subordinazione. L’unico modo per tentare di raggiungere un’uguaglianza sociale, sarebbe quello di ristrutturare il sistema giuridico attuale, partendo dall’idea che le donne dovrebbero prendere coscienza che è la sessualità ad originare la diversità, il cosiddetto “approccio consciousness”.[6]
Questo obbiettivo è ribadito anche da M.R. Marella[7], la quale sostiene che la vera vittoria politica non è la costruzione di uno scenario dominato dalle donne, ma dalla nascita di un nuovo sistema che tenga conto anche del loro benessere.
Questo pensiero è comune ad una pluralità di teorie femministe a livello internazionale, partendo da Simone de Beauvoir,[8] fino ad arrivare a Mary Wollstonecraft.[9]
L’ultima categoria analizzata da J. H. è quella del femminismo culturale, che si pone in maniera critica, adducendo come causa della disparità, non la dominazione maschile, ma la svalutazione dei valori femminili messa in atto dagli uomini. Affinché le donne possano essere nuovamente incluse nella società e sia possibile una nuova redistribuzione dei ruoli, la donna deve prendere coscienza di ciò.
Negli anni 80’ Frances Olsen,[10] ha sostenuto che “il diritto non ha un genere, ma è una forma di attività umana, esercitata principalmente da uomini”. Perciò c’è un distacco dalle teorie precedentemente analizzate, le quali sostengono che il diritto sia maschile.
F. O. si sofferma su un caso portato all’attenzione della Corte Suprema[11], nel quale ci si chiede se una lavoratrice incinta debba godere di un trattamento speciale rispetto ad altri lavoratori che versano in uno stato di malattia, attuando cosi una discriminazione che porta con sé come naturale conseguenza quella di inquadrare la donna come un soggetto debole, bisognosa di trattamenti di riguardo rispetto agli uomini. Questa questione ha comportato una spaccatura all’interno del pensiero femminista.
Queste tre teorie si pongono su piani paralleli ma indipendenti tra loro, partendo dal presupposto comune, ossia la distinzione sociale tra l’uomo e la donna, fino a convergere al risultato di voler costruire un nuovo sistema basato sull’uguaglianza del diritto, con percorsi differentemente strutturati.
Nella seconda parte della sua opera J. H. estende il campo d’analisi a livello internazionale, analizzando il pensiero delle cosiddette “femministe di Roma”, che hanno preso parte alla redazione dello Statuto di Roma del 1998. Queste donne hanno voluto portare all’attenzione della comunità la piaga dello stupro e delle violenze sessuali in tempo di guerra.
La quarta Convenzione di Ginevra[12] al suo articolo 27 dispone che “le donne saranno specialmente protette contro ogni attentato al loro onore, specialmente contro lo stupro”.
Le femministe di Roma, si oppongono a quanto stabilito da suddetto articolo, il quale definisce lo stupro come
“una lesione all’onore della donna”. Questa definizione secondo il loro punto di vista è errata, poiché “lo stupro non priva le donne della loro dignità”, ma causa loro delle ferite talmente profonde da costituire un trauma psicofisico. L’ideologia di questa corrente di pensiero si pone come ibrido tra il femminismo radicale e culturale, e viene affermato che “ogni qualvolta si parli di umiliazione ed onore, sia necessario parlare di violenze sessuali”, termine che verrà coniato in “violenze di genere” nel corso della Conferenza di Roma.[13]
Il tipo di riforma che si intende attuare durante la Conferenza mette però in risalto la pecca del sistema, ossia che la protezione verso determinati crimini, sia prevista in tempo di guerra, mentre l’idea sarebbe quella di inquadrare questi crimini non contro le donne in quanto soggetti civili, ma in quanto donne, nel senso generale del termine. Questo è quello che J. H. definisce “femminismo universale”, il quale si ripropone di ridimensionare il dilemma individuato da F. Olsen, ossia se si debba parlare di uguaglianza formale o sostanziale, quindi prevedere delle leggi speciali ad hoc per le categorie più deboli. Le violenze nei confronti delle donne devono essere trattate e sanzionate in ambito internazionale in ugual modo in tempo di pace e di guerra. Tale progetto non verrà però mai approvato.
Donna: vittima o carnefice?
Nella terza ed ultima parte del suo scritto, l’autrice vuole concentrarsi sulla ratio alla base del sistema sanzionatorio, che condanna gli uomini che infliggono violenze psicologiche alle donne. Per analizzare il problema, viene posta in essere una dialettica costituita dalle violenze sessuali, dal conseguente trauma psicologico nella donna, e dalla risposta sanzionatoria nei confronti degli uomini. Questa correlazione di eventi ha origine dal pensiero delle femministe di Roma[14]. Nell’osservare il fenomeno J. H. si basa sullo studio dell’opera di Duncan Kennedy “Sexy Dressing”, nella quale avanza una teoria provocatoria secondo cui l’abbigliamento sexy della donna possa essere una causa di violenza sessuale.
D. K. premette che il rapporto uomo- donna sia frutto di una negoziazione, ma che non sia ad armi pari, poiché l’uomo spesso ricorre a minacce per far sì che il suo potere sia maggiore, e che la donna per paura rimanga inesorabilmente in un ruolo subordinato. L’autore afferma che la legge potrebbe rompere questo circolo vizioso, se intervenisse più severamente nei confronti degli uomini che usano la violenza sessuale come strumento per sminuire la donna, e di conseguenza la donna vedrebbe aumentare il proprio potere di negoziare con l’uomo.
Nello sviluppare la sua tesi, viene presa ad oggetto la teoria tradizionalista che si oppone alle teorie femministe. La teoria in esame adduce una responsabilità alla donna che decide di tenere un abbigliamento sexy, poiché è una scelta che questa compie volontariamente, e che suscita nell’uomo un desiderio naturale.
Seguendo questa teoria, la donna oggetto di violenza sessuale è colei la quale ha deciso di non seguire più i criteri patriarcali della virtuosità, perciò non può essere considerata vittima.
Soffermandosi su questo punto si può capire il dramma che affligge la donna, che per paura, decide di conformarsi a determinate regole di condotta, regole maschili, da loro costruite ed imposte, ciò comporterà un aumento del potere maschile e la donna si troverà nuovamente in una condizione di sottomissione, senza aver avuto la possibilità di scegliere liberamente.
D. K. prende ad esempio un videoclip di Madonna e dimostra come questo rinvii l’uomo a diversi scenari, e viene riscontrato come in realtà sia la pornografia che consente all’uomo di auto-attribuirsi determinate caratteristiche che la società gli impone, attraverso l’umiliazione delle donna.
Questa tesi trova un fondamento nel pensiero di Catherine MacKinonn, la quale ritiene “che la pornografia e la prostituzione siano i campi principali dove condurre la propria battaglia”.
L’autrice vuole concludere la sua analisi ponendo l’attenzione sul caso Twyman[15], un celebre caso di divorzio americano portato all’attenzione della Corte Suprema del Texas. Sheila Twyman ha richiesto e ottenuto il divorzio dal coniuge William, intentando anche un’azione civile per richiedere un indennizzo per le violenze psicologiche. William Twyman fa ricorso alla Corte Suprema, la quale effettua un rinvio della causa affinché possa nuovamente essere giudicata, in quanto in Texas è consentita la possibilità di esperire un’azione legale per danni psicologici causati volontariamente. Sheila sostiene di avere subito tali danni dal momento in cui suo marito le ha proposto delle pratiche sessuali masochiste, le quali le hanno riportato alla mente il trauma subito da uno stupro sotto la minaccia di un coltello, del quale il marito era a conoscenza.
Proprio in virtù di tale consapevolezza del marito, Sheila si è sentita umiliata dal rifiuto del marito di potere-volere reprimere i suoi desideri sessuali, senza considerare gli effetti che avrebbero avuto su di lei, anzi egoisticamente sostenendo che quello fosse l’unico modo per salvare il loro matrimonio, avanzando minaccioso lo spettro di un eventuale divorzio se lei si fosse opposta. L’autrice rivela come questo caso abbia delineato delle forti divergenze all’interno della giuria della Corte. Sono tre gli elementi presi in considerazione per esaminare il caso, le “sollecitazioni masochiste, la rivelazione dello stupro subito e la minaccia di divorzio”. Questi fattori imprescindibili hanno fatto sì che Sheila si sentisse estremamente fragile in virtù del trauma subito, e che per poter salvare il suo matrimonio, si sia sentita costretta ad accettare di sottoporsi a delle pratiche di “bondage”. I giudici Cornyn e Spector sulle scia del femminismo culturale, sostengono che il trauma della violenza sessuale subita da Sheila la costringa a vivere nuovamente quell’esperienza in ogni pratica sadomasochista[16], e che sotto minaccia del divorzio (assimilabile alla minaccia del coltello) si sia sentita priva di ogni potere di negoziazione, il quale dovrebbe caratterizzare il rapporto uomo-donna. Quindi se ne può dedurre che se accetta di soddisfare certi desideri del marito, è solamente perché si sente costretta. Da questa visione si distanzia il giudice Hecht, il quale vuole mettere in luce come Sheila agisca in qualità di soggetto cosciente e responsabile delle proprie scelte.
J.H. vuole provare a interpretare il caso Tyman secondo differenti chiavi di lettura. Secondo il pensiero femminista, se si considerasse William come un soggetto pervertito, che segue delle sedute di psicoterapia, Sheila potrebbe divenire detentrice del potere di fissare la “legge morale” all’interno della coppia, e perseguire William, riacquistando potere umiliando pubblicamente il marito, si assisterebbe ad un’inversione dei ruoli tradizionali, grazie alla protezione che la donna ricerca nel diritto.
Secondo l’opinione dell’autrice per evitare di attribuire un genere al diritto, sarebbe meglio “rompere politicamente” con il femminismo.
Viene inoltre data una lettura del caso basandosi sulla “Genealogia della morale” di Nietzsche[17], nella quale viene assimilata la figura di Sheila a quella di uno schiavo durante la rivolta. Come lo schiavo, la donna è certa di avere un ruolo passivo nella società, e il potere che si vede negato viene tramutato in morale, la quale diviene risentimento, verso se stessa e verso l’uomo. Sheila infatti ha voluto umiliare William, desiderando di far riconoscere ad un giudice che lui avesse tenuto un comportamento intollerabile. In questo scenario ritroviamo tutti i sentimenti provati dallo schiavo, il desiderio di vendetta verso il padrone, portato all’estremo dalla sconfitta di sentirsi svuotata, vendetta però esercitabile solo indirettamente, poiché oppressa da un senso di impotenza. Questa rilettura ci fa comprendere come il femminismo possa essere un’arma a doppio taglio, facendosi da una parte promotore della libertà della donna, dotandola di un potere all’interno della coppia, e contemporaneamente essere il fautore principale della sua sofferenza.
L’obbiettività nella giusta distanza
Per concludere bisogna chiedersi quali siano le cause che permettono alla disuguaglianza di genere di persistere nella società odierna. Il diritto sicuramente gioca un ruolo fondamentale, ma bisogna fare attenzione a non abusarne, poiché potrebbe condurre a delle conseguenze opposte rispetto a quelle auspicate. È necessario domandarsi se sia giusto considerare il diritto come un alleato delle donne, con il rischio che queste vengano “marchiate” come soggetti fragili ed incapaci di autotutelarsi, ma d’altra parte, senza alcuna tutela legislativa, le donne faticherebbero a lottare. L’autrice propone di “prendere una pausa” dal femminismo, per poter vedere la donna da un’angolazione più obbiettiva anche se paradossalmente più lontana. Perché a volte per mettere meglio a fuoco, bisogna doversi sapere allontanare. Secondo la sua teoria, guardando la donna come un soggetto slegato dalla propria sessualità, sarà più facile anche per lei stessa capire come riacquisire quel potere che nel tempo l’uomo le ha negato e si è auto attribuito. Non bisogna più inquadrare la donna come stereotipo di soggetto fragile, che ha bisogno di protezione poiché relegata dall’uomo ai margini della società. Solo rompendo questo cliché sarà possibile per le donne prendere coscienza di quanto valgano e farlo realmente capire agli uomini, in modo che questi attribuiscano loro ciò che gli spetta, non per pietà o accondiscendenza, ma per rispetto e giustizia. Dal momento in cui vi sarà pieno e reciproco rispetto tra i due sessi, si potrà ritenere vinta la battaglia per l’eguaglianza sociale.
Bibliografia
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Catherine MachKinnon, “Feminism, Marxism, Method, and the State”, Universityof Chicago Press,1982
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Friedrich Nietzsche, “Genealogia della morale. Uno scritto polemico.”, Adelphi,1984
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Duncan Kennedy, “Sexy Dressing etc.”, Harvard University Press,1995
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Janet Halley, “Taking a break from feminism”, Jurisprudence revue critique,2011
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Lucia Morra - Barbara Pasa, “Questioni di genere nel diritto: impliciti e crittotipi”, G. Giapichelli Editore- Torino
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Quarta Convenzione di Ginevra, www.admin.ch
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Testo di Legge n.2010-769 del 9 Luglio 2010, www.legifrance.gouv.fr
[1] Enciclopedia Treccani
[2] Simone de Beauvoir sosteneva che le norme giocassero un ruolo fondamentale nella disperata ed ambita ricerca dell’uguaglianza tra i due sessi, “Le deuxième sexe”
[3] Tale attribuzione dei diversi ruoli è constatata anche da Ann Scales nell’opera” Toward a feminist jurisprudence”, 1981, nella quale analizza diverse decisione della Corte Suprema americana sulla tutela della madri lavoratrici
[4] Bianca Gardella Tedeschi “Questioni di genere nel diritto: impliciti e crittotipi”, pag.91
[5] C.MacKinnon, nell’opera “Marxism, Method and the State”, afferma che “la sessualità è il fulcro della disuguaglianza di genere”.
[6] C.Mackinnon, “Marxism, Method and the State”
[7] Nell’opera “Break on Through to the Other Side: appunti sull’influenza di Marx nel femminismo giuridico” di Maria Rosaria Marella, Professoressa all’università di Perugia
[8] S. de Beauvoir nel “deuxiéme sexe” affermava che fosse necessaria una collaborazione tra i due sessi
[9]M.Wollstonecraft: “Non voglio che le donne abbiano potere sugli uomini, ma su loro stesse”
[10] Nota professoressa di diritto nell’Università della California, Los Angeles, e membro della Giurisprudenza femminista
[11] “California Federal v Guerra”, 1987
[12] Convenzione sulla protezione delle persone civili in tempo di guerra, 1949
[13] J. H “Taking a break from feminism”
[14] Le quali affermano che “lo stupro non violi la dignità della donna, ma la ferisca”
[15] Caso Twyman v. Twyman, Texas 1993
[16] Basandosi sul principio del femminismo culturale secondo cui “stuprata un giorno, stuprata sempre”
[17] “Genealogia della morale” Friedrich Nietzsche,1887